testadoro barchetta 1951

- 70 anni di gestazione -

“... libero da obblighi fotografici spingo di nuovo la vettura, in 4°. In loro onore: non hanno potuto godersela, ma spero che la stiano guardando, in questo momento esatto, filare attraverso i campi. Sento sulle braccia scoperte il freddo del tardo pomeriggio, ho la pelle d’oca, mentre le gambe sono infilate nel sacco a pelo più bello del mondo, riscaldate come sono dal motore che gira a trenta centimetri dal mio ginocchio destro. L’aria colpisce il viso con forza e respirare diventa una guerra tra il mio naso e l'ossigeno che va troppo veloce e posso sentire fortissimo l’odore di erba tagliata e letame dei campi. Il 4 cilindri continua a sbraitare con il suo vocione roco e arrabbiato e il mio pensiero non è mai stato così lucido: sono qua, ora e adesso…”

Quello di oggi è un test speciale, una sorta di viaggio nel tempo, avanti ed indietro di quasi 70 anni: la Testadoro Barchetta arriva dal 1951 eppure è nata da poco, salvata dall’oblio da persone appassionate di vita vera.

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11 ottobre 2022| scritto e pensato dalla mente malata di M.Carito | editato e corretto dal pensiero distorto di Gabry | Inquadrato, scattato, editato dalla mano mossa di Sebastian Iordache

WhatsApp di Dario, proprietario del marchio Testadoro, 48h prima del test: “Ah, Marco, per domani mi raccomando, scarpe strette…”

Non posso fare a meno che sorridere. Perchè ok le velocissime auto moderne, ok le youngtimer ricche di fascino e carattere, ma guidare una barchetta con le radici ben piantate nel primissimo dopoguerra avrà tutto un altro sapore, a me completamente inedito. Già, perché nonostante l’auto in questione sia nata nel 2019, si tratta di una vettura in tutto e per tutto figlia del 1951, a partire dal progetto e dalla meccanica per arrivare alla realizzazione materiale, figlia di tanto impegno e della maestria della Martelleria Giacometto, che ha creato da semplici fogli di alluminio le forme clamorose che vedete nelle foto.

Forme pensate 70 anni fa. Un’epoca in cui, nel Torinese, le carrozzerie e i costruttori di vetture da competizione spuntano come panetterie: altro che Stellantis. Oggi, quindi, per Ruggine è una specie di salto temporale che Ritorno al Futuro levati veloce. La storia del marchio Testadoro è un po’ contorta, come tutte le storie che valga la pena di raccontare. Cerco di fare un sunto partendo dal nome, “Testadoro”: è coniato per una speciale testata disegnata e prodotta sul finire degli anni ‘30 dall’Ing. Arnaldo Rosselli, già uomo Alfa Romeo e Ferrari, uno degli artefici nel 1935 della famigerata Alfa Romeo 16C Bimotore. L’obiettivo del buon Rosselli è di tutto rispetto, cioè spremere più potenza dal modesto motore Fiat 508 “Balilla”. Le prime teste vengono prodotte in bronzo e proprio dalla particolare colorazione deriva il nome “Testadoro”. A questo punto appare l'imprenditore Giorgio Giusti, appassionato fondatore della Scuderia Subalpina, che entra in società con l’Ing., suggerendo però di portare le nuove teste miracolose sulla più popolare “Topolino”, che dall’alto dei suoi 13 cv ne ha un bisogno assoluto. Nel 1947 l’azienda, che ha mantenuto il bellissimo nome "Testadoro", decide di fare un bel salto: perchè non produrre anche il resto della vettura? Nasce così la “Sport”, una barchetta non proprio bellissima basata sul telaio “rivisto ed abbassato" della Topolino. Ci pensa il motore, sempre Topolino, da 660 cc, potenziato ovviamente le mitiche testate dell’Ingegnere, a far fare bella figura alla Sport, che inizia a farsi conoscere nel mondo delle corse.

Sull’onda dell’entusiasmo arriva velocemente anche l’evoluzione, curata questa volta (per fortuna…) sotto il profilo estetico da un giovane Zagato, che nel frattempo ancora non ha deciso se fare il pilota o il designer. Si può capire l’atmosfera del tempo dal nome scelto per questa prima evoluzione, ovvero “Drin Drin”, soprannome della moglie di Giusti, evidentemente attratta dal telefono in modo irresistibile. Con questa vettura Testadoro si porta a casa la prima vittoria di classe a Montlhéry (Francia) e diversi piazzamenti.

Il 1948 è l’anno giusto per rompere del tutto gli indugi: via il telaio Topolino e dentro una struttura tubolare Gilco, oltre che sospensioni anteriori a quadrilatero deformabile, molle elicoidali, carrozzeria “siluro” a ruote scoperte (sempre figlia di Zagato) e motore Testadoro (ma con teste in alluminio, con buona pace del bronzo) da 742 cc e 45 cv. Il nome dato a questa “pronto corsa” avanzatissima per l’epoca è Marinella, nome della figlia primogenita di Giusti. La vettura è così avanzata da battere concorrenti ben più potenti, tanto che lo stesso Giusti conquista la Coppa Michelin sul Circuito del Valentino di Torino, e la vettura porta in pista anche gente come Nuccio Bertone, anche lui nel limbo tra pilota e designer. Per i piloti che vogliono impiegare la Marinella nelle gare endurance la Casa pensa persino ad una vettura dotata di carrozzeria chiusa e tetto asportabile, prodotta in esemplare unico. Secondo alcune fonti Elio Zagato e Ugo Puma, pilota ufficiale Testadoro, vincono la Targa Florio di categoria nel 1949 proprio con questa Marinella speciale.

Ma è il 1949 l’anno fondamentale, in questa storia. Già, perché se da un lato viene presentata l’ultima evoluzione Testadoro, la “Daniela” (sì, esatto, la secondogenita di Giusti…), dall’altro viene a mancare l’Ing. Rosselli, vittima di un incidente automobilistico durante un test con Dante Spreafico, esperto pilota della Targa Florio. “Daniela” è dotata di un nuovo telaio Isogrid ed è mossa da un motore 742 cc portato a 48 cv a 7000 giri\minuto, massima evoluzione del progetto Testadoro per la categoria 750 cc. A testimoniare quanto la Testadoro sia efficace arrivano diverse vittorie assolute di categoria, dominando anche in circuiti veloci come Monza.

immagine di proprietà Dempsey Motorsport

Da qua in poi, beh, Testadoro si sgretola: priva della guida tecnica dell’Ing. viene a mancare un pilastro tecnico fondamentale e Giusti cede alle pressioni della moglie e del padre, preoccupati per la pericolosità intrinseca dell'automobilismo, chiudendo l’attività. Marinella e Daniela sono progetti così avanzati che alcune Scuderie dell’epoca continuano a portarle sui campi gara, raccogliendo altre vittorie e piazzamenti, ma sono solo echi di ciò che la Testadoro è stata. Breve lezione di storia finita, più o meno. Prima che tutto venne abbandonato, però, nei capannoni di via stava nascendo qualcos'altro.

E’ una barchetta tutta nuova pensata per un salto di categoria, grazie alla meccanica derivata dalla Fiat 1100 cc. La vettura era pronta, quantomeno sui tavoli da disegno, quanto l’azienda chiuse i battenti. Telaio in cromo-molibdeno con aggiunta di innovative strutture di rinforzo superiori, per una rigidità torsionale senza pari, passo allungato a 2400 mm (come la Ferrari 250 GTO, ma dieci anni prima) e linea incredibilmente filante e aerodinamica. Purtroppo a causa dei fatti di cui sopra non vide mai la luce. O, per meglio dire, ci mise 70 anni: è infatti proprio questa vettura, venuta da un passato “alternativo”, quella che avremo oggi a disposizione. E’ nata grazie a Dario Pasquini, che una volta ritrovati in modo del tutto casuale i progetti originali della Barchetta 1951 decide che sarebbe fantastico costruirla, ovviamente con l’aiuto di artigiani dalle mani d’oro e tanta passione. E’ una bellissimo, storia, vero? Sì, ma non quanto il risultato finale: guardatela.

Impressioni a ruote ferme

E’ difficile descrivere esattamente cosa sto provando davanti alla Barchetta in posa tra gli strumenti del battilastra, esattamente dove è nata, con la carrozzeria in alluminio non trattato che brilla sotto i neon. Sono felice, mi sento fortunato, ma la Barchetta è talmente fuori concorso che non riesco a formare un pensiero preciso: lo sguardo vaga tra le curve, accarezza le linee per poi, di volta in volta, fissarsi su qualche dettaglio. E’ così e ne prendo atto: sempre che ci si riesca ci vorrebbero settimane per descriverla col giusto distacco, e non le ho. Perdonatemi quindi se lascerò parlare le immagini di Seba: da quando siamo arrivati parla poco e scatta molto, giocando con le luci e tutti gli armamentari da fotografo, evidentemente ispirato anche lui dalla Testadoro.

Posso dirvi quello che è il sunto di tutta la giornata con lei: è bella, bellisima, ma in un modo tutto suo, come Letitia Casta con i dentoni. Di tre quarti anteriore e posteriore è semplicemente strepitosa, piena di dettagli che da soli basterebbero per rendere una qualunque vettura speciale, ma che qua si sommano in modo quasi eccessivo. Prendiamo l’anteriore: le curve sui passaruota sono assurde, alte e perfette, quasi da motoscafo d’epoca, con la presa d’aria frontale che all’interno ospita i due fari circolari e impreziosita, ad un secondo sguardo, dal labbro superiore leggermente a punta.

A lato, due fori circolari per il raffreddamento dei tamburi anteriori. Appena avete digerito tutto questo, alzate lo sguardo ed ecco un lunga presa d’aria, sottolineata dalla lucidatura dell’alluminio a contrasto con la carrozzeria “grezza”, in stile Ferrari Testarossa. Potrebbe essere abbastanza, ma appena oltre la carrozzeria priva di parabrezza si gonfia in corrispondenza del volante con una linea quasi biologica, più che meccanica. Dietro, idem: le curve dei passaruota sono quasi…sexy, e non mi sento (troppo) strano nel definirle così, perché è esattamente ciò che sono. La targa quadrata a lato fa capire quanto la burocrazia sia contro la bellezza, ma tant’è. I fanali tondi ai lati spezzano la curva metallica e allargano visivamente la carreggiata, un piccolo preludio alla bellissima gobba aerodinamica alle spalle del pilota, anch’essa in alluminio lucidato, e dallo sportellino che porta al serbatoio della benzina. Apritelo e potrete vedere chiaramente il tubolare abbracciare il differenziale posteriore e l’albero di trasmissione, una sorta di spaccato di meccanica 1950. Wow, che roba.

Digerito questo non resta che osservarla lateralmente, vista un po’ più complessa per via del passo lungo. Non è brutta, anzi, resta un oggetto molto affascinante, ma le proporzioni non sono propriamente naturali e le danno l’aspetto snello e leggero di una…gazzella, come dice il buon Dario, che sicuramente ha osservato la vettura ben più di me.

I cerchi “pieni” da 15 pollici sono perfettamente in stile. L’abitacolo è talmente esposto da avere una funzione estetica vera e propria: i sedili dalla scocca in metallo sono rivestiti da strapuntini minimi color cuoio e sembrano provenire da un bombardiere della Seconda Guerra Mondiale, impressione rafforzata dalla cintura ventrale e, una volta seduto dentro, dalla strumentazione Alemanno composta da contagiri, pressione e temperatura olio, posta centralmente.

Il volante in legno ha la corna tagliata nella zona inferiore, modifica necessaria per poter infilare le gambe nello stretto spazio a loro dedicato. Già, perché l’ergonomia è un concetto moderno e la Testadoro ne è la dimostrazione: i pedali sono lontanissimi e per arrivare a schiacciarli completamente devo avvicinarmi molto, ma così facendo mi ritrovo con il volante a 25 centimetri dal mio petto. Il pomello del cambio, anch'esso in legno e, come il volante, opera dello stesso Dario, è nella giusta posizione ed è stranamente “cicciotto”, tanto da manovrare più con il palmo che con la stretta delle dita. Per la prima volta non ho fretta di provare un’auto, mi gusto il momento. Anche solo stare accanto alla Barchetta, scambiando chiacchiere con Dario e Paolo, titolare della Martelleria Giacometto e creatore della carrozzeria, è incredibilmente soddisfacente. Basterebbe per definire questa giornata come “fantastica”.

Ma è il momento di andare.

Su strada

O meglio, sarebbe il momento di andare: il carburatore Solex inizia a fare i capricci appena salgo a bordo, come da prassi per le vetture storiche. Per fortuna il motorista di Testadoro è nel capannone accanto: i ragazzi della Osmeg smontano, soffiano, collegano e sussurrano al motore e dopo qualche tempo il 4 cilindri si mette in moto con un minimo accettabile, pronto per qualche chilometro di scorribande in mezzo alle campagne.

Dario, nell’attesa, ha già comprato online un carburatore Weber: non si smette mai di evolvere. Siamo pronti: contatto con la chiave e tiro la lunga leva sul cruscotto per accendere il motore, che parte facendo vibrare tutta la struttura. Un po’ come per la linea della carrozzeria, la Barchetta necessita del giusto tempo anche solo per farla muovere decentemente. Il cambio, un 4 rapporti sempre di derivazione Fiat 1100, innesta con una corsa cortissima e in modo molto netto, per fortuna. Il problema è la frizione dalla corsa chilometrica e la posizione di guida studiata per Dario, che è più alto di me d'una spanna. Questo, in aggiunta al minimo ballerino dovuto al carburatore “ribelle”, rende le partenze un po’ complesse, ma una volta in movimento è la posizione del volante a prendersi la scena: è talmente vicino al mio petto da non lasciarmi lo spazio per utilizzarlo nel modo in cui siamo abituati dal 1960 in poi.

Alla fine propendo per una posizione ibrida: braccio sinistro fuori dalla carrozzeria, in pieno stile Mille Miglia, e braccio destro che “può accompagnare solo” (.cit), allargando i gomiti per recuperare angolo di manovra. Sono completamente fuori dalla linea della vettura e il cofano brilla sotto la luce, mandando riverberi a seconda dell’andamento della curva, ed è fantastico stare qua. E poi c’è lui, l’umile Fiat 1100, che dopo le cure rinvigorenti dell’officina, è in grado di produrre 66 cv a 13 NM di coppia a circa 5200 giri\minuto, ma può spingere la lancetta rossa del contagiri fino a 7000, all’occorrenza. Il suono è rauco, granuloso, quasi da bestia arrabbiata: una di quelle piccole e incazzuse, tipo il tasso del miele. Le vibrazioni del motore risalgono la struttura fino alle ossa ad ogni accelerata, colpendomi fisicamente. Non posso fare a meno di spremerlo ogni volta che la strada me lo permette, anche perchè appena abbasso il ritmo inizia a borbottare infastidito, scoppiettando e strattonando. Quando, in 2°, affondo tutto il piccolo pedale del gas i 550kg della Barchetta vengono lanciati in avanti con decisione, poi inserisco la 3° e arrivo a 5500 giri\minuto: il rumore dell’aria attorno alla testa si mischia con il suono del motore, creando un mix incredibilmente immersiva.

Non so a quanto sto andando, non c’è tachimetro, ma non mi interessa saperlo. La soddisfazione sta nel far funzionare un oggetto come questo, un’auto in cui la componente umana è fondamentale. Solo adesso che sono qua a descrivere l’esperienza mi rendo conto di aver imparato senza nemmeno accorgermene: ad esempio, a premere l’acceleratore facendo però attenzione a dare il tempo al carburatore di riempirsi senza “annegare”, così da avere una spinta migliore; a fare una piccola pausa in mezzo al movimento, in particolare tra la 2° e la 3°, per avere un innesto “netto” e perfetto; ad inserire il lungo muso con un attimo di anticipo rispetto quanto si farebbe normalmente, un po’ per il passo lungo e un po’ perché gli pneumatici, con sezione da 125 (!), vanno in appoggio dopo una sensibile flessione della carcassa. I freni, a tamburo sulle quattro ruote, rallentano la marcia ma non frenano sul serio, quindi ci si muove istintivamente con molto anticipo.

Ma, in qualche modo, non arrivo mai lungo, e questo grazie alla massa ridotta e al baricentro rasoterra. Mi sto divertendo: sulle buche il grosso cofano trema visibilmente, i pedali vibrano sotto la pianta del piede e tutto è iperfisico, anzi, iper-reale. Per fortuna, una volta lanciata, lo sterzo non ha bisogno di molto angolo per indirizzare il muso: chicane ampia in mezzo ai campi: stringo il volante, mi concentro e spingo a fondo in 3°. Non freno, anticipo solo un po’ lo sterzo e punto la traiettoria interna: la Barchetta sembra scivolare da un appoggio all’altro, con naturalezza, sparando sassolini contro l’interno del passaruota. Sul lento, invece, il posteriore si inserisce con più ritardo, tanto che all’inizio sobbalzo sul sedile, pronto a gestire un sovrasterzo inaspettato. Ma non c’è da preoccuparsi: è solo il modo di curvare di una Barchetta del 1951. Più ci prendo la mano e più inizia a crescere in me il già notevole rispetto per i piloti di una volta.

La concentrazione e l’adattamento che richiede è massiccio e pensare ai piloti che lo facevano per migliaia di chilometri, ad esempio durante una Mille Miglia, fa davvero impressione. Se l’osteopatia fosse andata di moda già negli anni ‘50, penso che gli osteopati sarebbero diventati più ricchi di Elon Musk. Mentre penso a queste cose la luce sta andando giù e l’alluminio della carrozzeria si sta illuminando di arancione. Incredibilmente tutto diventa ancora più speciale, memorabile. La nostalgia di base tipica dei tramonti autunnali assume un sapore tutto diverso, ma prima di tornare in officina ho ancora un piccolo tratto di strada: porto per l’ultima volta il motore a 7000 giri, in 3°, e mi godo il momento.

Considerazioni finali

Nostalgia. Non saprei bene precisamente di cosa, è un insieme di piccoli istanti. Nella Barchetta ti senti davvero dentro alla vettura, parte di quel processo complesso che porta alla magia del motorsport: sei parte di un meccanismo, l’ingranaggio più importante di tutti. Oltre questo, attraverso la Barchetta puoi sentire l’idea, le chiacchiere davanti al caffè caldo, il sudore e l’impegno profuso da quegli uomini vissuti tanti anni fa. Le speranze, l’amore profuso, i progetti futuri. Mentre riporto la Barchetta verso l’officina, libero da obblighi fotografici, spingo di nuovo la vettura, in 4°. In loro onore: non hanno potuto godersela, ma spero che la stiano guardando, in questo momento esatto, filare attraverso i campi. Sento sulle braccia scoperte il freddo del tardo pomeriggio, ho la pelle d’oca, mentre le gambe sono infilate nel sacco a pelo più bello del mondo, riscaldate come sono dal motore che gira a trenta centimetri dal mio ginocchio destro. L’aria mi colpisce il viso con forza, respirare diventa una guerra tra il mio naso e l'ossigeno che va troppo veloce e posso sentire fortissimo l’odore di erba tagliata e letame dei campi. La scocca fluttua sulla strada, infilandosi negli avvallamenti con appena una correzione naturale del volante, che trema ogni volta che gli pneumatici passano sopra una increspatura dell’asfalto. Il 4 cilindri continua a sbraitare con il suo vocione roco e arrabbiato e il mio pensiero non è mai stato così lucido: sono qua, ora e adesso, ad essere qua, senza le distrazioni che sporcano le esperienze più moderne e, in definitiva, molto meno immersive.

Voglio dirlo chiaramente a voi: Ing. Rosselli, Sig. Giusti e anche a te, Dario: la vostra creatura è una meraviglia. Lunga vita a Testadoro!

Un enorme grazie va al generoso Dario Pasqualini che ci ha permesso di provare per davvero questo esemplare unico: ti auguro il meglio per i tuoi progetti futuri, e mi auguro anche di poterlo raccontare personalmente! E poi, sicuramente, un grazie grande come una casa va a Paolo, titolare della Martelleria Giacometto: un maestro giovane, che ha voglia di condividere con neofiti come noi alcuni segreti del proprio lavoro e che ci ha aperto le porte del proprio magico mondo. Grazie ragazzi, a presto.

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