honda integra type r dc2
- "forse abbiamo esagerato" -
”...due curve e il mio cervello apre il file “Guidare l’Integra come si deve.exe” e lo installa. Avviene quasi all’improvviso: lunga curva a sinistra, freno e appena l’avantreno cambia direzione affondo il gas, in netto anticipo con quanto fatto finora. Succedono due cose in rapida sequenza: primo, appare San Torsen che mi fa l’occhiolino, appoggia una mano sulla ruota anteriore interna e la schiaccia giù. Secondo, tutta la mia insicurezza svanisce, spazzata via da un'uscita di curva fatta di rabbia e grida furiose che mi fa saltare di gioia sul sedile. Eccoci, lo sapevo, lo sapevo!”
Ho una storia d’amore con questo modello, un rapporto terminato più di dieci anni fa, mio malgrado. La Honda Integra Type R ha segnato un solco nella mia memoria di ragazzo, ma ora ho molta più esperienza personale e non solo, tutto il mondo automobilistico è cambiato. Diciamolo: 192 cv e la coppia massima di un trapano fanno quasi tenerezza nel 2022.
Non deludermi, ti prego, non farlo…
Dunque, il momento ce l’ho davanti agli occhi come fosse oggi: avevo sedici anni, 1998. Capello lungo, maglietta dei Sepultura e una catena dal portafoglio al passante dei jeans così lunga che se mai mi avessero scippato, il ladro sarebbe comunque riuscito a girare l’angolo senza che me ne potessi accorgere. Ricordo persino dov’ero: sala d’aspetto del dentista. Pareti color Imodium, sedie cigolanti e faccia gonfia. Nella tristissima selezione di giornali vecchi di 15 anni, quelle robe tipo “Vero” e “Famiglia Cristiana" che sembrano vendere solo per le sale d’aspetto, avevo trovato per miracolo un “Auto” nuovo di pacca. Aprii a caso e sbam: pubblicità a due facciate con una bianchissima coupé giapponese di tre quarti anteriore nell’intento di volare su un cordolo, appena più in basso un contagiri che sfonda quota “9000” e poi, grossa e centrata, la scritta: “Forse abbiamo esagerato”. La salivazione mi salì a livelli inenarrabili e, complice l’anestesia che mi rendeva scemo il lato destro della faccia, non riuscii a non sbavare copiosamente. In quell’istante la mia vita da appassionato di auto (platonico, fino a quel punto) fu inesorabilmente indirizzata verso le vetture estreme e costruite per uno scopo ed uno soltanto: far godere il guidatore. Così, su due piedi e tutto sbavato, presi una decisione ferma come solo certe decisioni prese da adolescenti sanno essere: avrei avuto, prima o poi, una Honda Integra Type R. Aspettai fuori dal giornalaio come le teenager al concerto dei Backstreet Boys nel ‘95 sino a che non uscì il successivo numero di “Auto”, che in copertina aveva il test di una di queste miracolose Honda, giornale che conservo ancora. Davanti ai numeri restai senza parole: 192 cv a 7900 giri\minuto sparati fuori da un motore 1800 cc ASPIRATO, nome in codice B18. L’autore del test diceva chiaramente che non si era mai visto un motore del genere e che l’auto si poteva paragonare ad un Gruppo N stradale, con tempi di accelerazione e ripresa tali da far impallidire alcune 2.0 lt turbo. E poi elogi al cambio, allo sterzo, alla posizione di guida… Insomma, ero innamorato, cari amici. Anche perché, oltretutto, la Type R pesava 1100 kg, aveva sofisticate sospensioni indipendenti davanti e dietro, un aggressivo differenziale autobloccante Torsen di serie ed una rigidità torsionale da primato di categoria. Per farla breve, acquistai una Integra a 22 anni e per tre anni e mezzo me la godetti all’infinito: era la n°1950, un esemplare nero comprato a Genova. L’ho adorata, era in grado di sembrare speciale anche quando si andava a spasso, cosa che comunque accadeva raramente. Un giro con lei e passavo dall’arrabbiato al felice in un attimo, tempo di sentire il VTEC buttare dentro la camma cattiva ed entrare in curva con il posteriore fuori di qualche grado, altro che psicoterapia. Con lei ho scoperto la pista, per lei mi sono alzato presto la mattina per andare a fare qualche curva, per lei ho speso fino all'ultimo centesimo in modifiche e affinamenti. Quando l’ho venduta (ho comprato casa e mi sono reso conto di non avere soldi per il soggiorno) non ho avuto il coraggio di guardarla andare via. Ho sentito il suo scarico “N1” allontanarsi e ho capito subito che mi sarebbe mancata.
Un paio d'anni dopo, un ragazzo “amico di amici” mi chiese di fare un giro con la sua Integra Type R appena comprata, tanto per “sentirla” e scovare eventuali problemi. Fu strano e nostalgico. La parte strana era il colore dell’esemplare, per il resto fu come ritrovare una vecchia amica.
Il colore? Bianco perlato. Toh, proprio come quella che ci ha trovato per il test Graziano di StoreXtreme…
Impressioni a ruote ferme
La vita ogni tanto è strana: la prima Honda Integra su cui metto le mani per Ruggine Magazine è anche l’ultima che ho guidato nel lontano 2011. Roba che “Carramba che sorpresa” a confronto sembra un ritrovo tra ex compagni delle medie. So cosa state pensando: quel colore non si può vedere, le Honda con la “H” rossa sono cazzute e brutali e vanno bianche, rosse o nere. La penso come voi, ma Marco è un vero Hondista, quindi ha pensato in primis a riportare la sua auto al massimo sotto il profilo delle prestazioni, dopo penserà a riparare ai danni fatti dalla precedente proprietà sotto il profilo estetico.
Questo esemplare è appena tornato da una completa “rialzatura”, come amano dire i rallysti. Bracci delle sospensioni ed elementi elastici nuovi, ammortizzatori Bilstein B8 con molle Eibach, angoli su misura, gomme freschissime e un generale controllo del telaio. L’Integra, beh, è sempre l’auto che ricordavo. Il muso, per gli standard odierni, è veramente basso e affilato, con i quattro fari tondi ai lati, una grossa presa d’aria ed il lip anteriore a pochi centimetri da terra che riprende in tutto e per tutto quello montato su certe vetture da competizione. Anche da ferma ha un aspetto iper focalizzato e molto deciso. Il cofano è piatto nella parte centrale ma si piega all'insù in corrispondenza dei passaruota, che hanno lo stesso effetto ottico delle auto Gruppo N: non sono allargati in modo particolare, eppure nella loro essenzialità sembrano così muscolari da non poterli ignorare. I cerchi forgiati Enkei sono da 15 pollici, quindi piccoli, piccolissimi per gli standard moderni: la versione Giapponese faceva meglio con dei bellissimi 16 pollici, ma oramai abbiamo capito che a Tokio e dintorni tengono per loro le cose migliori.
Comunque, l’assetto ribassato e l’altezza della linea del tetto ridotta al minimo non li fanno apparire insufficienti, anche se la colorazione scura li “sbatte” un po’. La fiancata è semplice e lineare, con l’ampia vetratura e la linea del portellone, semplicissima ma sempre bella, delle coupé anni ‘90. Le minigonne sono minimaliste, così come il paraurti posteriore, dalla forma semplice e tutto sommato banale nonostante, anche qua (come all’anteriore), troviamo impressa la scritta “INTEGRA”. Il vero colpo di teatro si materializza sotto forma di un grosso alettone dall’aria bellicosa che troneggia sul baule a mo' di bandiera dei pirati.
Oh, non so se sono io, ma la linea della DC2 (codice Honda di questa bomba) mi piace da impazzire, e senza particolari ragioni di design. Smuove, oggi come quando ero un sedicenne, la parte più viscerale di me. Dovete sapere che io sono un pelo estremista quando si parla di purezza di intenti, in ogni cosa. Ecco, l’Integra ha lo stesso atteggiamento: è fatta per uno scopo e solo uno, mettere in ridicolo le altre concorrenti dell’epoca. Non solo, se non sarai in grado di guidarla come si deve sbeffeggerà anche te e se le gira ti prenderà anche a calci sul naso sotto forma di sovrasterzo in entrata di curva. Tornando alla Integra, c’è poi il singolo scarico tondo che sbuca come un fucile di grosso calibro da destra e quei due fari che allargano visivamente il posteriore della DC2. Certo, avrei preferito la “H” rossa al centro, ma toglierla è un’altra trovata della vecchia proprietaria.
Alle volte i carrozzieri dovrebbero avere il coraggio di dire di no… Ho atteso un po’ prima di salirci, mi sono goduto l’attesa e l’ho guardata di sottecchi come si fa con una ex che ancora vi gonfia i corpi spugnosi. Il nostro fotografo, Seba, è uno che parla poco ma capisce certe sfumature e, con la scusa di alcuni passaggi, mi chiede di salire a bordo. Apro la lunga portiera, prendo un attimo e poi mi calo dentro al Recaro rivestito in alcantara nera. In un secondo vengo fiondato a più di 10 anni fa dalla perfetta ergonomia di questa auto. Il sedile scorre solo avanti e indietro, non si può regolare in altezza, un’altra dichiarazione di intenti: l’abbiamo già montato il più basso possibile, quindi non rompere. Sono seduto ad una spanna da terra, con le gambe ben distese ed il volantino Nardi a semicalice (modifica di Marco, che ci vede molto meglio della precedente proprietaria) perfettamente verticale. Il pomello in titanio è montato su un’asta metallica piegata in modo da trovare la posizione perfetta: lasciate cadere il braccio dal volante e la mano troverà sempre il pomello con il giusto angolo del gomito.
Impugno il liscio ed oblungo blocco di metallo, è freddo come lo ricordavo e lo faccio scorrere da un rapporto all’altro. Ecco di nuovo quella eccezionale sensazione meccanica che avevo impressa nella testa. Il contagiri con fondoscala a 10.000 giri/minuto è la ciliegina sulla torta e definisce l’atmosfera che si respira qua dentro. Lo fa così bene da non farmi insultare il finto carbonio sparso qua e là… Mezzo giro di chiave e poi accendo lo speciale 1800 cc: il 4 cilindri si accende dopo una leggerissima esitazione e si assesta ad un minimo stabile e concitato. Seba, come hai detto? Passaggi? Certo, farò inversione appena posso, giuro…
Su strada
Il percorso di oggi è uno dei miei preferiti in assoluto, una strada conosciutissima da tutti gli appassionati di guida piemontesi, che racchiude tutto ciò che potete desiderare e che è stato spesso teatro del Rally Città di Torino. Avete presente quando vostro padre vi guardava male e diceva: “non provare ad alzarti se non dopo aver finito tutto il piatto, ci siamo capiti?” Ecco, qua è lo stesso: la DC2, con la presa sicura dei sedili, la posizione di guida perfetta e il B18 che prende giri al minimo tocco sul gas mi sta urlando: “non provare a scendere senza averci provato, Marco, non deludermi!”. Dopo i primi metri, però, dentro di me nasce una sorta di paura, non sento quella nota speciale che mi sarei aspettato. Non è che tutte le esperienze fatte su Ruggine in questo anno mi hanno cambiato e che i miei ricordi della DC2 sono, per dirla facile, semplicemente un romanzo che mi sono scritto da solo nel cervello? Tipo gli “ahhh, ai miei tempi, quelle si che erano auto…” che si sentono nelle vecchie officine? La DC2 sembra davvero tesa come un elastico, con l’assetto che rimbalza sugli avvallamenti, ma non so perché la ricordavo più… affilata.
L’avantreno, pur ad andatura moderata, non riesce a mordere l’asfalto come vorrei e sottosterza sempre un po’. Le gomme semislick e l’asfalto freddo non vanno d’accordo, ma non è solo quello, c’è qualcosa che non funziona tra me e lei. Il B18 è elastico e fa un suono pazzesco già ai regimi intermedi, ma nulla vi prepara a ciò che succede quando a 5700 giri\minuto il VTEC entra in azione afferrando come un manganello la camma più aggressiva. Il motore, così de botto e senza senso, cambia tonalità, spara altri 20 Db nelle vostre orecchie e la lancetta si catapulta verso la zona rossa come una biglia quando da piccoli tiravamo una “schicchera” a tutta forza. E’ qualcosa di veramente pazzesco, un carattere talmente particolare ed estremo da imbarazzare tutta la produzione moderna, fatta di noiosi motori turbo dal carisma di Giucas Casella. Il B18 si lancia contro il limitatore come se volesse sfondarlo, il suono è quello di una vettura da competizione fatta e finita e la spinta è appuntita e tangibile. E’ però una spinta di potenza e non di coppia, quindi non la “sentite” molto con la schiena, ma la percepite più con gli occhi che vedono gli alberi a bordo strada trasformarsi in una striscia verde e marrone informe. Quando siete a pieno carico il telaio sembra tendersi ancora di più e la prima volta che si prova questa sensazione si resta tanto stupiti da prendere il limitatore o da alzare il piede, un vero assalto sensoriale. Il motore è un vero e proprio capolavoro di ingegneria, punto e basta. Il problema vero è che la DC2 sta già mettendo in dubbio me, su questo tratto di strada, perché non riesco a tenere il motore “in tiro”. Questo aspetto, unito ad una strana esitazione dell’anteriore, mi fa procedere a saltelli.
Freno, inserisco, l'Integra scivola un pochino, traiettoria sbagliata, torno sul gas ma anche in 2° sono distante dal VTEC e resto “appeso” in uscita di curva. Marco, davvero non siete più compatibili? Roba da andare a casa e piangere disperato sotto la doccia. Anche così, però, ci sono due elementi che stanno brillando: lo sterzo ed il cambio. Il primo è tattile e comunicativo, anche se lo vorrei un pò più diretto, mentre il secondo è il classico cambio HONDA: veloce, preciso, incredibilmente veloce come l’otturatore di un’arma. In scalata, senza pensarci, sfrutto l’ottima pedaliera per fare il punta tacco e godermeli come fossero pasticcini. Arrivo in fondo (ho superato Seba da un pezzo…), inversione, respiro profondo e torno su. Due curve, il mio cervello apre il file “Guidare la DC2 come si deve.exe” e lo installa. Avviene tutto all’improvviso: lunga curva a sinistra, freno e appena l’avantreno cambia direzione affondo il gas, in netto anticipo con quanto fatto fin'ora. Succedono due cose in rapida sequenza: primo, appare San Torsen che mi fa l’occhiolino, appoggia una mano sulla ruota anteriore interna e la schiaccia giù. Secondo, tutta la mia insicurezza svanisce, spazzata via da un'uscita di curva fatta di rabbia, grida furiose e leggeri strattoni sul volante. Eccoci, lo sapevo, lo sapevo! So che può sembrare superficiale, e in parte lo è, ma l’Integra sembra essersi scrollata di dosso tutto il fastidio di prima semplicemente togliendo, da parte mia, remore ed insicurezze. La Honda richiede decisione e violenza, per rispondere felicemente con la stessa moneta. Lungo rettilineo in discesa, VTEC in 3°, brividi, 9000, butto dentro la 4°, altri quattro secondi di VTEC a gas spalancato e poi, mentre freno a fondo, punta tacco 3°, giri che partono per aria, punta tacco 2°, motore a 7000 giri\minuto. Il pedale centrale ha una corsa più lunga del previsto ma l’Integra rallenta stabile e sicura, lascio i freni, leggero sottosterzo (dannato asfalto umido) e poi torno sull'acceleratore.
La DC2 rifà la magia, si attacca alla traiettoria interna tipo Mary Poppins con il lampione e segue una traiettoria strettissima, attraverso il volante sento il differenziale che fa strappare pezzi d’asfalto alle gomme da 195, che se vi dicessero cosa possono fare non ci credereste mai. Tramite la corona del volante si può sentire il carico sulle ruote anteriori in entrata (“peso” dello sterzo solido), l’arrivo del leggero sottosterzo (“saltino” e poi maggiore leggerezza) e avvertire il differenziale lavorare (piccoli colpetti sulla corona), in pratica un telegrafo, meraviglioso. Faccio su e giù più e più volte, fino a quando le gomme non si scaldano abbastanza da eliminare del tutto anche il sottosterzo in entrata: adesso si, ora ci siamo. Come per tutte le Honda che si rispettino, a causa della cronica mancanza di coppia, conoscere il percorso aiuta tantissimo la scorrevolezza: questo tratto di strada l’ho già fatto svariate volte e quindi tutta l’esperienza sale ad un altro livello. C’è una sinistra a 90° su un ponticello che apre su un rettilineo e poi una “S” veloce a vista. Freno fino al punto in cui l’ABS non inizia a tirarmi colpetti sotto al piede, mollo il freno mentre inserisco, il posteriore fa una sorta di rotazione, tipo le quattro ruote sterzanti di alcuni mezzi moderni, che aiuta l’inserimento e dimezza il tempo tra azione del volante e l’arrivo del muso sul punto di corda. Quasi in contemporanea torno sul gas, tutto quello che posso. La DC2 ed io usciamo dalla curva con una traiettoria che più aggressiva non si può, accompagnati da un suono epico. Sul rettilineo scarico tutta la 3°, poi freno, scalo in 2°, il motore è così reattivo che ogni punta tacco i giri schizzano per aria come coriandoli alla festa del pilota della domenica e poi disegno la chicane solo con il “tira e molla” sul pedale gas.
Quando lascio l’acceleratore in entrata di curva l’Integra sfoggia di nuovo quella sorta di rotazione dell’asse posteriore e quando torno a dare voce al B18 questo movimento si ferma all’istante, bloccando l’auto sulla traiettoria ed accumulando velocità. Non smetterei mai di fare avanti e indietro su questo tratto di strada, anche perché più ci prendo la mano e più l’Integra sblocca nuovi livelli di aderenza, più sono aggressivo e più quell'avantreno si impunta e si aggrappa all’asfalto. La cosa pazzesca è che si tratta di una tenuta di strada solida ma al tempo stesso mobile e modificabile a piacimento tramite gli input del pilota, una sorta di balletto tra freno, gas, sospensioni e pneumatici. Non è un'aderenza “di gomma”, ma di telaio, di setup. Ciò che può fare quest’auto in percorrenza, cari ragazzi, andrebbe testato da tutti almeno una volta nella vita. E’ un crescendo uomo-macchina, un distillato di guida vera, di purezza, ciò che ricordavo e che per un attimo ho temuto fosse solo una mia fantasia giovanile. Ho i brividi, e per la verità anche un pelo di nausea per la guida all’attacco degli ultimi chilometri, cosa che non mi succedeva da tempo, ma sono rilassato e felice. Compiuto, ecco la parola giusta.
Considerazioni finali
L’Integra Type R è un’auto completamente di un’altra epoca. Non sfoggia un turbo, non ha coppia a valanghe, né pneumatici da supercar o cerchi da 19 pollici. I dischi dei freni fanno tenerezza rispetto alle padelle delle compatte di oggi, così come i freddi numeri della scheda tecnica. Ma la cosa che più la distanzia dai tempi moderni è che ti obbliga a lavorare, a smussare, a capire ed a metterci del tuo, non ti regala nulla, non è stata pensata per elogiarti. Ed è proprio questo che la rende speciale, è una sorta di "specchio delle mie brame” e giuro che ora proverò a spiegarmi meglio. Quando scendi da una guidata come quella di oggi è quasi immediato pensare alle auto “sportive” moderne come fuori fuoco, appannate e non così “belle del reame” come pensiamo. La cosa è che Biancaneve Type R è più semplice, più memorabile, ti viene voglia di baciarla di continuo e puoi immaginarti con lei per tutta la vita. Vuoi crescere e invecchiare accanto a lei, capite? Cosa definisce grande un’auto? Un motore dal carattere forte e costruito su specifiche ad hoc? Il B18C6. Sospensioni raffinate? Eccole, indipendenti sulle quattro ruote. Eccellenza tecnica? Cambio da prima della categoria, sterzo ottimo, differenziale perfettamente tarato ed aggressivo. Ergonomia, rarità, aura speciale? Che ve lo dico a fare… Metteteci poi che per ogni sforzo che farete lei vi ripagherà esponenzialmente ed il gioco è fatto.
L’Integra è speciale ed unica. Mi sbilancio: per me è l’auto che Porsche farebbe se volesse una GT3 a trazione anteriore.
Date un occhio al contagiri: non vi ricorda nulla?
Marco, grazie mille. A parte il nome bellissimo, ritrovarti mi ha fatto piacere. Anche se, per quanto questo sia vero, non è nulla rispetto al piacere di ritrovare l’Integra.
E grazie anche a Graziano di StoreXtreme, che come sempre tira fuori auto fantastiche tra i suoi contatti.
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